Dopo anni di incerta navigazione nelle acque fangose delle pseudoriforme, la navicella degli enti locali sardi scorge l’approdo di un riordino fondato non più sull’impressionismo approssimativo e populista ma su una ricerca a vasto raggio condotta con un anno di lavoro serio e rigoroso dall’assessorato guidato da Cristiano Erriu e dalla commissione Autonomia presieduta Francesco Agus.
L’attenzione rischia di concentrarsi sull’aspetto più macroscopico, cioè sul superamento del tradizionale sistema imperniato sulle province. Non sará però quello il cuore della riforma, bensì il debutto del nuovo protagonista del governo locale: l’unione dei comuni.
Il vero obiettivo qualificante della riforma è infatti quello di consegnare ai cittadini un nuovo potente strumento di erogazione dei servizi pubblici di prossimità, che raggiunga dimensioni ottimali per la produzione e la distribuzione di prestazioni di qualità, realizzate a costi sostenibili per la finanza pubblica. In Sardegna l’unione dei comuni tenterà di contemperare la storica, e a tratti ancestrale, articolazione diffusa delle comunità sul territorio con la ormai inderogabile necessità di colmare le economie di scala derivanti da enti pubblici di troppo piccola dimensione. Il primo aspetto della riforma è quindi amministrativo e finanziario: si cerca cioè un equilibrio -appunto ottimale- tra soggetti comunitari (campanili) e organizzazioni amministrative (le amministrazioni comunali e il loro assetto).
Ma esiste un secondo aspetto ancora nascosto, ma non per questo meno rilevante e meno gravido di conseguenze: la profonda trasformazione che avverrà nella struttura politica della Sardegna.
In un contesto italiano nel quale la partecipazione politica si concentra sempre di più nelle mani degli eletti superstiti a seguito delle nuove leggi elettorali e della riduzione del numero degli eletti (consiglieri comunali, sindaci, consiglieri regionali, presidenti delle regioni) il nostro governo locale passerà da un sistema molecolare composto da poche città e più di trecento piccole e piccolissime esperienze municipali, ad uno nel quale invece i protagonisti divengono trenta o quaranta nuovi soggetti ove si concentrano le responsabilità dell’esercizio dei poteri pubblici, della spesa delle risorse locali e inevitabilmente della rappresentanza degli interessi generali.
Un cambio così radicale di scenario postula inevitabilmente il sorgere di una nuova classe politica locale dal profilo completamente nuovo rispetto a quella che finora abbiamo conosciuto.
Una più ampia visione strategica, una maggiore coscienza della missione di governo, un più alto grado di specializzazione politica per far fronte all’accresciuto livello di articolazione tecnica e burocratica dell’ente da guidare.
Sarà una trasformazione che non è esageraro definire antropologica e che rappresenta una sfida innanzitutto per i partiti, proponendo ad essi due alternative: guidare il processo, divenendo agenzie della formazione politica e soggetti di coordinamento della nuova classe dirigente, oppure subendo il fenomeno consapevoli però dell’inevitabile contraccolpo che quella trasformazione produrrà sulla loro stessa natura, modificando nel profondo e definitivamente i circuiti dell’emersione della classe dirigente nei territori e del processo della decisione politica.
Il Centrosinistra al governo, ma in realtà tutte le Forze politiche, sono chiamate dunque ad una riflessione sul tema, e svolgendo sino in fondo il proprio ruolo, ad una azione in merito.
Roberto Deriu, vice capogruppo Pd in consiglio regionale